Una visione ottimistica dell’utilizzo nelle città delle piattaforme digitali è stata affossata clamorosamente da un agente non previsto, una pandemia globale
In Italia la mappa della diffusione del corona virus si identifica perfettamente con le aree urbane messe in pole position dalle graduatorie sulla smartness cittadina (le cosiddette smart city)
La fase “due” ma, soprattutto, il futuro che ci attende, costringe tutti noi a ripensare alle aree urbane fuori da ogni ottimistico “determinismo tecnologico”
In definitiva, vi propongo di abbandonare il termine smart city e di ragionare sulla “normalità flessibile” di un ambiente urbano
Un avvertimento, molte delle affermazioni che qui seguiranno si basano sull’analisi della gestione pubblica dell’ambiente urbano, sul ruolo dei decisori politici e della burocrazia pubblica, sul “non ruolo” dei cittadini. Quindi, quando qui parlo di “digitale”, mi riferisco sempre e solo al suo impatto sull’ambiente cittadino, sulle sue dinamiche, sulla sua progettazione.
Quelle che seguono sono alcune riflessioni provvisorie -una specie di traccia- per ragionare poi di nuovo, in modo strategico e più approfondito, del futuro degli ambienti urbani dopo la pandemia.
Già il dire da parte mia “dopo la pandemia” è una forzatura, dal momento che nessuno sa quando e se ci sarà un vaccino in grado di contrastare il corona virus, e se mai maturerà una immunità di gregge.
Probabilmente dovremo convivere a lungo con un fattore letale, non prevedibile, che può essere contrastato nel tempo solo cambiando le relazioni economiche e sociali che hanno contraddistinto l’ambiente urbano così come si è venuto a formare nell’epoca dell’economia industriale.
Stiamo parlando dell’ambiente urbano composto da una trama di luoghi fisici e di attività che necessitano di relazioni e di contatti materiali.
Questa “materialità” è stata aggredita e fatta a pezzi dall’impatto del corona virus.
Infatti, rifletteteci bene, che cosa è il lockdown che stiamo sperimentando sulla nostra pelle da alcune settimane se non la messa in discussione di:
- un sistema educativo basato sulla presenza in un’aula (un luogo fisico);
- un sistema di trasporti pubblico basato sulla condivisione di un luogo (carrozza) da ottimizzarsi dal punto di vista dei costi e dell’efficacia sulla base del numero di persone trasportate;
- una gestione della Pubblica Amministrazione di un ambiente urbano (o di una Regione) basata sulla presenza in ufficio degli operatori e sul rapporto “fisico” con i cittadini;
- un sistema di acquisto basato sul declino del negozio di prossimità puntiforme e la diffusione invece di grandi luoghi di acquisto e di aggregazione.
Gli esempi potrebbero continuare. Fate voi -che avete la bontà di leggermi- un esercizio di quante vostre attività “normali”, non solo quelle lavorative, sono state messe in discussione in queste settimane. La vostra riflessione, magari da condividere, potrebbe seriamente aiutarci a definire una diversa idea di ambiente urbano sostenibile e resiliente.
Meglio, vi prego di abbandonare sul serio lo slogan “smart city”, figlio del “positivismo” e del “determinismo tecnologico digitale” e di ragionare su un futuro degli ambienti urbani basato sulla capacità di ripensare le attività del genere umano, i luoghi e le funzioni tradizionali.
Tutto questo anche per affrontare meglio gli eventi pandemici, l’insostenibilità ambientale, le diseguaglianze sociali che il corona virus metterà ancora di più in evidenza a partire dall’incremento della disoccupazione.
Ci servono le tecnologie digitali? E, se sì, a cosa ci possono servire? Come le dobbiamo utilizzare al meglio?
Facciamo un esempio semplice, semplice partendo da episodi di vita vissuta di questi giorni.
È facile dire “insegnamento a distanza” utilizzando il digitale. La realtà ci dice:
- che in molte case la connessione ad internet non è sufficiente. Laddove lo è, la potenza di banda è stata acquistata non tanto per la formazione (o per il lavoro a distanza) quanto per vedere meglio Netflix;
- molti ragazzi non hanno a casa un computer o un device adatti a sostenere una lezione “virtuale”. È un problema dovuto spesso alle difficoltà economiche della famiglia, ma anche al fatto che i genitori benestanti hanno speso cifre importanti nell’acquisto per il ragazzino dell’IPhone (o Samsung) di ultima generazione, o di piattaforme per i giochi on line e non di un device pensato anche per lo studio e per la formazione;
- gli insegnati, mediamente, non hanno sviluppato una cultura di base per gestire la diffusione del sapere e la didattica utilizzando una qualsivoglia piattaforma digitale.
L’idea di città smart si è basata sull’analisi (quasi sempre ottimistica) dell’impatto di alcune killer application digitali così come si sono diffuse in questi anni (non solo nell’ambiente urbano, ma anche nel mondo della produzione):
- la diffusione del cloud computing;
- la diffusione dei device mobili;
- l’avvento di internet of things;
- la diffusione del social networking;
- la diffusione delle infrastrutture di connettività;
- lo sviluppo dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale.
Ricordo ancora che, spessissimo, sono stati utilizzati, nella definizione di “smart city”, indici di carattere quantitativo, piuttosto che di efficacia relazionale e di utilizzo, e che si è trascurata l’idea che l’impatto del digitale in un ambiente urbano di grandi dimensioni (la metropoli) è profondamente diverso da quello di città di piccole e medie dimensioni.
Non a caso gli indici smart hanno riguardato sempre le metropoli. Ricordo a tutti noi che, nonostante tali metropoli fossero indicate come modelli smart e come esempi da seguire, sono stati questi gli ambienti urbani maggiormente colpiti dal corona virus con effetti tragici.
Si è purtroppo dimostrato, in pratica, che le “Disneyland digitali”, i famosi tassisti di Singapore, indicati come modelli da seguire, di fronte ad un evento imprevedibile e aggressivo come il corona virus non hanno retto.
D’altronde il “pistolotto” che ci veniva propinato come introduzione ad ogni evento smart “recenti studi dell’ONU ci dicono che le aree urbane saranno maggiormente interessate da inurbamento generando problemi ecc.ecc.”, si è dimostrato un presupposto culturale clamorosamente sbagliato o quantomeno parziale.
Sugli ambienti urbani di tutte le dimensioni (demografiche e territoriali), influiscono fenomeni conosciuti (potenzialmente gestibili anche grazie ad un uso intelligente delle tecnologie digitali) ma anche, eventi esogeni non facilmente prevedibili e gestibili (in questo caso una pandemia).
In sé la potenzialità delle tecnologie digitali, come indicate più sopra, combinate tra di loro, se opportunamente sfruttate avrebbe consentito, in epoca di emergenza corona virus:
- di svolgere in modo “decontestualizzato” molte attività a partire da quelle lavorative, anche le più tradizionali (cloud computing + device mobili + connettività);
- di gestire più correttamente il sistema trasportistico sia pubblico che privato (cloud computing + Internet of things + connettività + intelligenza artificiale);
- di gestire più efficacemente la formazione a distanza dei nostri ragazzi (connettività + device mobili e non + cloud computing);
- di “decontestualizzare” il rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadini (social networking + device mobili + cloud computing + connettività);
- di attuare politiche pubbliche (anche sanitarie) guidate dalla predittività (cloud computing + intelligenza artificiale).
Ovviamente queste potenzialità dovrebbero essere pensate non solo nell’emergenza, ma anche per diventare la strategia finalizzata a trasformare l’ambiente urbano.
Gli ostacoli sono evidenti e non semplici da affrontare, perché per superarli è necessario che una “governance pubblica” sia “consapevole” e possegga le conoscenze sufficienti per miscelare correttamente interventi tradizionali (ripensare il welfare ad esempio), potenziandoli con le opportunità offerte dal “digitale”.
Ho usato il termine “combinarsi”, perché nessun ambito del digitale può svilupparsi senza entrare in sinergia con un altro ambito. Questa combinazione è naturale ed evidente nel mondo degli OTP (over the top), non avviene nel mondo della governance pubblica anche per evidenti problemi di potere e di conoscenza.
La governance pubblica ha il potere pieno di intervenire sui fattori tradizionali materiali di un ambiente urbano. La governance pubblica si riduce ad essere un semplice cliente acquirente quando entriamo nel mondo del digitale.
In fin dei conti il dibattito sulla privacy che segna, con molte ragioni, l’adozione della app di tracciamento per prevenire la diffusione del contagio, si basa sull’assunto del “possesso” dei dati, sulla loro custodia, sulla capacità/possibilità di mescolare dati che oggi risiedono su più piattaforme pubbliche e private.
Oggi, piaccia o no, il potere e la conoscenza per trarre sapere “vero” dai dati sta nella galassia delle OTP, il resto è la solita Disneyland delle app”. Sono perciò assolutamente patetiche e pericolose le “fughe” in avanti di alcune Regioni che hanno commissionato app e pensato di utilizzarle per prevenire la diffusione del virus.
Conoscere, sapere, informare, ciò dovrebbe guidare l’agire della governance pubblica.
Come si capisce, nel governo dell’ambiente urbano, le infinite potenzialità del mondo digitale non sono state utilizzate efficacemente e consapevolmente.
Vi avanzo una proposta per operare praticamente in una direzione “diversa”. Le aree metropolitane italiane -non solo i capoluoghi- stanno fruendo da tempo di fondi e di progettualità definita PON METRO.
Si tratta di svariate decine di milioni di euro impegnati, con diverso successo, per sviluppare piattaforme e applicativi destinati alla gestione dell’ambiente, al traffico, al welfare, alla digitalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni comunali.
Non è questo il luogo per esprimere un giudizio sulla “smartness” dei diversi progetti presentati. Penso invece che questa sia l’occasione per mettere a fattore comune gli applicativi e le piattaforme fino ad oggi sviluppate utilizzando quei finanziamenti.
Penso sia l’occasione per pensare come “sistema Paese” alla governance dei dati generati attraverso gli applicativi finanziati con i Bandi PON METRO. Sono chiaramente dati di “interesse pubblico”.
Sono sicuro che, al di là delle cifre stanziate (molte ancora da impegnare) sarebbe un bel passo in avanti nel governo delle aree urbane.
A questo punto c’è sicuramente bisogno di un atto di umiltà collettivo. Se le nostre città -non intendo solo in Italia- fossero state “smart” davvero, l’organizzazione dell’ambiente urbano e della vita sociale per prevenire e per affrontare meglio il corona virus sarebbe stata sicuramente meno problematica.
Va allora abbandonata, anche strategicamente, l’idea della smart city che si misura e si valuta su parametri quasi sempre solo quantitativi.
Va accompagnata alla “fase 2” (3/4 ecc.) una seria analisi su come l’utilizzo degli assets digitali favorirà o meno la transizione al ritorno ad un modo “normale” e “diverso” di vivere.
Non utilizzo il termine “ritorno alla normalità” perché penso che l’ambiente post emergenza sarà, per tanto tempo, diverso da come lo avevamo conosciuto.
Il modo di vivere l’emergenza diventerà, sicuramente “senso comune” e sarà quindi percepito progressivamente come normalità.
La grande sfida, a partire dall’istruzione, dal modo di lavorare, dal muoversi, dall’uso dello spazio urbano, dalla salute, sarà quella di immaginare una diversa fruibilità degli spazi urbani antropizzati e di pianificare l’ambiente urbano nell’epoca della post pandemia.