Ringrazio gli amici di WE4Italy per l’ottima intervista. Avete interpretato perfettamente il mio pensiero.
Abbiamo incontrato Michele Vianello, Smart Communities Strategist, uno dei più importanti attori del cambiamento e dell’innovazione in Italia, durante l’incontro “Imprese e Smart City – in collaborazione con Unioncamere” a Smart City Exhibition 2013.
Durante la presentazione si è parlato di impresa, innovazione e di presente che guarda al futuro.
Via via si sono susseguiti suggerimenti e ipotesi per riuscire a comprendere attraverso quali canali e buone pratiche sarà possibile far dialogare e coordinare i vari attori in campo.
Come è cambiato l’ecosistema città rispetto al mondo del lavoro?
Il punto focale su cui concentrarsi è che quello che sta cambiando è prima di tutto il lavoro. Dico questo perché le figure che lavorano sono immerse in un mondo sempre più decontestualizzato. Ciò a cui mi riferisco è, per esempio, il luogo di lavoro: non vi è più necessità di essere in un determinato ufficio o altro tipo di posto prestabilito e definito per quella specifica mansione; grazie alla rete, infatti, cambia totalmente la modalità lavorativa. Le figure che si occupano di uno specifico prodotto riescono a trascendere il valore in sé dello stesso introducendo una vera e propria intelligenza al semplice prodotto materiale.
Si viene però a creare un problema nel momento in cui, a fronte di questo totale mutamento della vita delle persone, che implica mobilità, decontestualizzazione, vera e propria libertà del lavoratore la città continua a mantenere un’impostazione fordista. Nonostante viviamo nel XXI secolo subiamo ancora la tipica dicotomia della fabbrica: luogo-lavoro e definizione programmata degli orari che questa comportava continuano ad essere il paradigma su cui si imposta la città, non considerando invece chi è l’attore che la vive oggi.
Anche nel suo l’intervento a Smart City Exhibition ha precisato di non voler parlare di Smart City ma di ecosistema di innovazione: perché tiene a fare questa precisazione?
Del termine “Smart city”se ne sta facendo un gran parlare, anche io stesso ne tratto nel mio ultimo libro. Il problema è nel fatto che questo termine viene sempre più collegato ad un concetto tecnologico o di “macchina”: sensore, social network o altro fatto sta che ne deriva un’errata percezione. In realtà la città ha al centro le persone, gli oggetti, le imprese che condividono in modo organico un sistema innovativo: un vero e proprio ecosistema di innovazione.
Per evitare contraddizioni o fraintendimenti preferisco quindi usare termini diversi come ecosistema, appunto, o città intelligente che secondo me riescono a definire in maniera più puntuale il contesto.
Il lavoro è il mezzo per rinnovare: si deve andare verso un progresso civile generale basato su un parametro di convivenza della città. Per certi versi chi già fa parte di ambiti lavorativi innovativi ha già maturato questa percezione senza però esserne del tutto consapevole.
Qual è il ruolo dei giovani innovatori d’impresa nella visione d’insieme a cui dobbiamo fare ora riferimento?
Il giovane innovatore d’impresa dev’essere il disobbediente: colui che rifiuta l’idea di “continuare come si è sempre fatto”. Tutti i grandi atti di innovazione nascono dalla disobbedienza, anche in questo caso bisogna avere il coraggio di mettersi in gioco per sovvertire l’ordine delle cose, passare dal “come è stato fin’ora” a impegnarsi per creare nuovi parametri e modalità.
Mi piacerebbe che i giovani imprenditori fossero dei veri e propri evangelist di innovazione. Il passaggio da un’organizzazione di tipo verticale ad una orizzontale, il lavoro in team, le buone pratiche di collaborazione, di dialogo, di interazione sono i punti focali su cui concentrarsi; perché, diciamocelo, le imprese che vincono sono quelle in grado di collaborare.
E’ fondamentale che chi ce la fa si metta in rete con gli altri innovatori che si sono lanciati in imprese simili, che si implementi il buono e la piattaforma We4Italy, per esempio, grazie alla sezione dedicata allo storytelling d’impresa, offre la possibilità di condividere le best practice messe in atto dai pionieri e che sono risultate vincenti, in modo anche di spronare all’innovazione.
Cosa può fare il Paese per far crescere le giovani imprese?
Secondo il mio parere quella da mettere in atto è un’innovazione che passa per la tecnologia ma è fondamentalmente culturale. Non credo nelle misure calate dall’alto, nell’imposizione di procedure dettate da chi sta ai vertici e non dialoga con chi giornalmente si ritrova nel campo di gioco. Credo invece in un approccio totalmente opposto, che cambi gli orizzonti culturali, perché sono i territori che innovano.
Bisogna uscire dal provincialismo e mettere in atto pratiche concrete di dematerializzazione come l’e-commerce, il crowdsourcing, la creazione di ambienti urbani inclusivi come le fab-lab o i coworking. Credo nell’innovazione in senso totale e armonico e nell’estensione di questa attraverso chi la vive di giorno in giorno.