Due articoli particolarmente interessanti hanno attirato la mia attenzione.
Il primo é pubblicato da La Repubblica “Apple brevetta vestiti 2.0 in grado di ricaricare l’iPhone. E blocca gli Sms per chi guida”.
L’articolo ci parla di “smart clothing“, ossia di sensoristica in grado di fare interagire uomini e macchina (I.O.T.).
In questo caso Apple lavora su indumenti in grado di interagire con le funzionalità dell’IPhone e sperimenta, per evitare incidenti stradali, il blocco della ricezione degli sms quando si è alla guida di una autovettura.
La ricarica di un dispositivo mobile è in sé cosa banale, io ne vedo utilizzi ben più importanti per il futuro delle nostre città.
L’interazione costante e strutturata -ossia che diventa sistema- tra gli uomini e i sensori, grazie a Internet, ci consentirà sempre di più attività sicure ed efficienti in infiniti campi della nostra vita.
La sanità (prevenzione), il traffico, la gestione delle public utilities possono -già oggi- essere migliorate dalle tecnologie “indossabili”.
In verità questi applicativi generano infinite quantità di dati utili ad esprimere forme di governance intelligente.
Ecco che allora la consapevolezza della quale parlo molto spesso nelle mie pubblicazioni diventa l’essenza della smart city.
Il secondo articolo è stato pubblicato dal Corriere della Sera “Il ritardo italiano nell’era digitale Tre proposte per tornare in orario“.
Consiglio questo articolo perché ci consente una lettura meno banale e superficiale di quanto comunemente si faccia, sui ritardi nel nostro Paese verso Internet.
L’autore (Alec Ross imprenditore e Senior Fellow alla School of International & Public Affairs della Columbia University) ci richiama al concetto di “politiche industriali”.
Affrontare efficacemente le sfide dell’epoca di Internet implica, per un Paese, aver concepito e praticato efficaci politiche industriali.
La differenza sostanziale rispetto ad altre epoche dell’economia è che ciò che trattiamo sono dati.
Il nostro Paese è stato abituato -con alterne fortune- a trattare atomi.
Il nostro Paese non è abituato, non ha la cultura, non ha la dimensione industriale per trattare l’immateriale.
Questa consapevolezza (che non trovo in nessun protagonista del mondo politico) dovrebbe pervadere l’intera Agenda Digitale italiana.
Peccato, proprio non ci siamo.
Questi due articoli ci richiamano anche ad una riflessione sul sistema startup in Italia.
Da tempo sottolineo come sia necessario abbandonare la “fase eroica e giovanilistica” dell’innovazione per traghettare l’ingegno giovanile (e non solo) verso un sistema industriale strutturato che ci aiuti davvero a dare lavoro a migliaia di giovani italiani.
Anche per le startup è giunto il momento delle “politiche industriali”.